La storia del neutrino

Il nome “neutrino” deriva dal vezzeggiativo di “neutrone” e nasce da una conversazione tra Edoardo Amaldi ed Enrico Fermi all’Istituto di fisica di via Panisperna. Da quel momento la comunità scientifica internazionale userà questo termine senza tradurlo in altre lingue. Questa particella elementare è al centro di importantissime scoperte, alcune delle quali sono state premiate dal Nobel per la Fisica. In questa timeline vengono raccontate le principali tappe della storia del neutrino, dagli anni Trenta a oggi.

I neutrini sono tantissimi, arrivano sulla Terra e si aggirano per tutto l’Universo. Sparsi in tutto il mondo, i laboratori sotterranei e i telescopi, grazie ad altissime tecnologie e a grandi sforzi, cercano di vedere e misurare queste particelle invisibili. Il nostro corpo, in ogni istante, è attraversato da miliardi di neutrini, senza però che queste interazioni danneggino la materia di cui siamo fatti.

La prima donna nello Spazio

Alla fine di un segretissimo addestramento, il suo nome e il suo volto, nell’arco di poche ore, fanno il giro del pianeta, proprio come lei aveva fatto pochi giorni prima a bordo della capsula Vostok 6. Dopo il volo di Gagarin, l’Unione Sovietica consolida il suo primato in ambito spaziale con un ulteriore record. Valentina Tereškova è la prima donna a volare nello spazio ed è la perfetta immagine della propaganda del partito. La grande determinazione, la forte personalità e l’estrazione proletaria sono gli ingredienti perfetti perché questa giovane ventiseienne diventi un’eroina e rappresenti le virtù del comunismo.

Nel 1962 viene selezionata dalla Soviet Air Force insieme ad altre quattro ragazze, le prime della storia a entrare a far parte del corpo sovietico deicosmonauti. Tra queste sarà solo Valentina a volare nello spazio. In seguito, Sergei Korolev, capo del programma spaziale sovietico, dirà a questo proposito: “le riserve erano più preparate, ma nessuna di loro poteva competere con la Terešhkova. Lei è capace di influenzare le folle, suscita simpatia e sa comparire davanti al pubblico”.

Dopo il suo volo spaziale la Terešhkova diventa ambasciatrice culturale e ricopre vari incarichi politici fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Nel 2013, durante il 50° anniversario dalla sua missione spaziale, l’ex cosmonauta dichiara di voler andare su Marte, con un biglietto di sola andata. Nel 2014, alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di Sochi, porta la bandiera olimpica.

Dal volo spaziale della Terešhkova si devono aspettare 19 anni per vedere un’altra donna partire per lo Spazio. È la sovietica Svetlana Savitskaya, impegnata nella missione sulla navicella Soyuz T-7 verso la stazione spaziale Salyut 7.

Giornata Mondiale della Biodiversità

Incorporare la diversità biologica nelle strategie e nei programmi nazionali e internazionali è il tema del 2016 per la Giornata Mondiale della Biodiversità. Compie quasi 50 anni la necessità di proteggere e preservare la variabilità di tutte le specie animali e vegetali, esplicitata per la prima volta alla conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano nel 1972, per il beneficio delle generazioni future.

Nel 1992, durante la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e sullo sviluppo, arriva la prima definizione di biodiversità: “l’espressione «diversità biologica» significa la variabilità degli organismi viventi di ogni origine, compresi inter alia gli ecosistemi terrestri, marini ed altri ecosistemi acquatici, e i complessi ecologici di cui fanno parte; ciò include la diversità nell’ambito delle specie, e tra le specie degli ecosistemi”. Questa definizione appartiene all’articolo 2 della Convenzione della Diversità Biologica, siglata dagli Stati membri che si impegnano a cooperare per la conservazione e l’utilizzazione durevole della biodiversità.

Anche l’Unione Europea ha dato il suo contributo. Definendo una strategia fino al 2020, si pone l’obiettivo di preservare la biodiversità, intensificando il contributo europeo per scongiurarne la perdita a livello mondiale. Tutte le 1900000 specie viventi svolgono un ruolo fondamentale nell’ecosistema in cui vivono. E questa importanza non è solo di natura biologica o naturalistica, ma ha anche un risvolto economico e produttivo. La biodiversità è un vero e proprio serbatoio di risorse, dal cibo alle medicine, dall’industria alla lavorazione dei prodotti di origine animale, passando attraverso il turismo.

Secondo il dossier di Legambiente del 2015, in Europa, il 60% delle specie e il 77% degli habitat si trovano in uno stato di conservazione non favorevole e non sembrano capaci di centrare l’obiettivo generale, cioè quello di fermare la perdita di biodiversità entro il 2020. E in Italia? Cosa dice il barometro della vita? Per valutare lo stato della biodiversità nel nostro Paese, sono stati studiati 2807 campioni rappresentativi degli habitat diversi: terre emerse, acque dolci e mari. Sono stati studiati, quindi, alcuni animali appartenenti a questi habitat, come: spugne, coralli, squali, razze, coleotteri, libellule, farfalle, pesci d’acqua dolce, anfibi, rettili, uccelli e mammiferi. Sul totale delle specie, 596, cioè un quinto del totale, sono a rischio di estinzione. Per 376 specie, in particolare invertebrati o animali di ambiente marino, il rischio di estinzione è ancora ignoto, a dimostrazione del fatto che, su questi aspetti, c’è ancora molto da scoprire.

La derubricazione dell’omosessualità dal DSM

La derubricazione dell’omosessualità come malattia mentale, voluta dall’American Psychiatric Association nel 1973, è il risultato di una lunga battaglia che ha avuto un forte impatto sulla vita di milioni di uomini e donne omosessuali, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. Questo evento è stato un importante cambiamento nel mondo della psichiatria e ha avuto una forte risonanza sociologica e psicologica. Io ho avuto il privilegio di svolgere un ruolo significativo in questa battaglia.

SPECIALE MAGGIO – Queste sono le parole di Judd Marmor, psichiatra americano impegnato nella depatologizzazione dell’omosessualità, in un’intervista pubblicata sul Journal of Gay & Lesbian Psychotherapy nel 2011. In questa intervista Marmor ricorda le diverse modifiche che l’omosessualità, classificata come disturbo mentale, ha subito nella varie edizioni del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) dal 1973 al 17 maggio 1990, momento in cui qualsiasi definizione di omosessualità tra le categorie diagnostiche è stata definitivamente cancellata dal manuale.

Nel 1952, l’American Psychiatric Association (APA), in risposta alla classificazione ICD (International Classification of Diseases) dell’OMS, raccoglie in un manuale, il DSM, le definizioni e le descrizioni di molti disturbi mentali, classificandoli in base alla frequenza statistica delle loro caratteristiche. Dal 1952 a oggi, sono state prodotte 5 versioni del manuale, i cui aggiornamenti si basano sui cambiamenti, nel tempo e nelle diverse culture, della diffusione e dell’incidenza delle sofferenze psichiche. La storia della derubricazione dell’omosessualità racchiude in sé sia considerazioni scientifiche e metodologiche sia pressioni sociali e culturali.

Il primo tentativo di depatologizzazione risale al 1973 e viene stabilito all’unanimità dal Board of Trustees dell’APA. Gli oppositori a questa scelta, però, chiedono che la decisione venga estesa a tutti i membri dell’APA e indicono un referendum. Il risultato della votazione allargata è il medesimo: l’omosessualità deve essere eliminata dal DSM. Gli oppositori non si arrendono e continuano a indignarsi perché sostengono che la cancellazione non si possa basare solamente su un voto, ma debba avere solide argomentazioni scientifiche.

Tuttavia, la decisione di derubricare l’omosessualità come malattia mentale affonda le sue radici in anni di ricerche scientifiche che dimostrano i difetti e gli errori metodologici negli studi fino ad allora condotti. Le pressioni politiche esercitate in quegli anni dai movimenti di liberazione sessuale accelerano il processo decisionale senza, però, sostituirsi alle argomentazioni di natura scientifica. Tra queste emerge, per esempio, l’infondatezza del campione studiato: alcune teorie a sostegno dell’omosessualità come malattia mentale si basavano su un campione molto ridotto, addirittura inferiore alle 10 persone, che produceva risultati statisticamente non significativi.

Altre teorie non prevedevano un gruppo di controllo, cioè non verificavano che le condizioni delle persone omosessuali fossero presenti anche in un gruppo di controllo di eterosessuali. In altri casi il campione selezionato era costituito da omosessuali con disturbi psichiatrici e tali disturbi venivano attribuiti all’omosessualità. Infine, considerata la natura dell’argomento sempre sottoposto a pregiudizi, gli studi si sarebbero dovuti basare sulla regola del doppio cieco, per evitare che i pregiudizi iniziali influenzassero il risultato. Il 17 maggio 2005, 15 anni dopo la definitiva eliminazione dell’omosessualità dal DSM, viene istituita per la prima volta la Giornata Internazionale contro l’omofobia.

26 aprile 1986: il disastro di Chernobyl

È notte, e in quelle cittadine sperdute dell’Ucraina settentrionale, a fine aprile, non fa più così tanto freddo. All’improvviso si sente un grande boato. È distante e ovattato. Per chi dorme sembra solo di avere sognato. Chi si sveglia, invece, vede attraverso le finestre senza persiane un bagliore, lontano ma intenso, e di un colore diverso da quello dell’alba.

Il primo boato, diranno in seguito i tecnici per spiegare l’incidente, corrisponde a una violentissima esplosione. Oltre 1000 tonnellate di cemento e ferro saltano in aria scoprendo un cilindro, fino a quel momento chiuso ermeticamente, contenente il nocciolo di un reattore nucleare. I tecnici chiameranno quel cilindro “reattore 4” oppure “reattore di tipo RBMK-1000” e diranno che un’improvvisa perdita di controllo sulla reazione nucleare ha indotto il nocciolo a surriscaldarsi e il vapore dell’impianto di raffreddamento a raggiungere temperatura e pressione elevatissime.

Il bagliore, invece, continueranno a spiegare gli esperti, corrisponde alle fiamme di un incendio causato dalla reazione dell’ossigeno dell’aria a contatto con il nocciolo ad altissima temperatura. Quello che brucia è la grafite e quello che produce, oltre al bagliore, è una pericolosa nuvola tossica di radionuclidi e prodotti di fissione, che si espande velocemente in Ucraina, Bielorussia e Russia, zone che rimangono gravemente contaminate, per arrivare poi anche in Europa e in Nord America.

Quello di Chernobyl è stato il primo incidente nucleare a essere classificato con il massimo livello della scala INES, seguito, solo cronologicamente ma non per gravità, dall’incidente dell’11 marzo 2011, a Fukushima in Giappone.

L’incidente di Chernobyl, oltre a causare gravissimi danni sanitari, ambientali ed economici ha scosso notevolmente l’opinione pubblica, indebolendo la fiducia nei confronti di scienza e tecnologia, ma ha contemporaneamente alimentato collaborazioni internazionali per rafforzare la sicurezza degli impianti nucleari e per prevenire e gestire le situazioni di emergenza.

Sulle cause dell’incidente vengono prodotte due versioni discordanti. La prima, elaborata nell’agosto del 1986, sostiene che la responsabilità sia da attribuire al personale dell’impianto. Il giorno prima dell’incidente, infatti, viene operata una manovra di manutenzione proprio al reattore numero 4 che, per una serie di errori concatenati, degenera nella nota catastrofe. La seconda versione, invece, pubblicata nel 1991, allarga il campo di responsabilità, imputando l’errore alla progettazione del reattore e delle barre di controllo. Dalle verifiche eseguite e dai dati ottenuti sembra che a scatenare l’evento siano stati proprio entrambi i fattori.

Oggi del sito della centrale è rimasto uno spettro, come documenta ilreportage di Danny Cooke in Postcards from Pripyat.

Piantiamo alberi e proteggiamo il suolo

La Terra è di tutti e la giornata del 22 aprile ce lo ricorda ancora di più. Oggi si celebra il World Earth Day con iniziative in tutto il mondo intorno al tema dell’anno: Trees for the EarthLet’s get planting. Mancano solo cinque anni al 50° anniversario della Terra, meta che si pone un obiettivo molto ambizioso: arrivare a piantare 7,8 miliardi di alberi, partendo proprio da oggi. Gli alberi costituiscono uno dei cinque obiettivi da raggiungere e riuscirci contribuirebbe a vivere in un pianeta più pulito, più sano e più sostenibile. Piantare alberi significherebbe aiutare a combattere icambiamenti climatici, a respirare aria più pulita e a proteggere il suolo da incursioni irreversibili e letali. Il suolo infatti non è solo una superficie, ma è un corpo vivo che registra la storia e racconta anche di noi.

A parlare di questa risorsa, che ogni giorno calpestiamo, è Paolo Pileri, professore associato di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, nel libro “Che cosa c’è sotto”. Pileri racconta perché ogni giorno dovremmo ricordarci del suolo e perché la sua gestione dovrebbe entrare urgentemente nell’agenda politica. “Per quanto gli esseri umani si affannino con arte e tecnologia, la loro esistenza dipenderà sempre da un sottile strato di terra, e dalla pioggia”, ci racconta l’autore del libro ricordando un antico proverbio cinese. “Ce lo dimentichiamo molto facilmente, ma il suolo non è una merce, è un bene”, continua Pileri, “ed è importantissimo perché ci dà cibo, acqua, aria, risorse e paesaggio”.

Sulla Terra, non c’è risorsa altrettanto capace di fare tutto questo e, forse, non ce ne è una altrettanto delicata, fragile e resiliente. “Per rigenerare 2,5 centimetri di suolo occorrono 500 anni, un fuori scala rispetto alle nostre vite biologiche”, racconta Pileri, “se lo cementifichiamo, decade immediatamente e non si riprende più”. Il suolo, quindi, non è una risorsa rinnovabile e cementificarlo significa perdita e rinuncia alla produzione di cibo, acqua e aria buona. Ogni anno nel mondo oltre 24 miliardi di tonnellate di suolo sono perse per sempre, un danno pari a 70 dollari per persona all’anno. “È sicuramente l’urbanizzazione il più invasivo e irreversibile tra i consumi del suolo, ma c’è anche l’erosione, la compattazione e gli sversamenti inquinanti” spiega Paolo Pileri, che commenta “nessuno Stato mette questa enorme e assurda perdita nei suoi bilanci”.

In Europa, vengono urbanizzati circa 250 ettari di suolo al giorno. In Italia, si parla di 50-60 ettari, ovvero circa 5 metri quadrati al secondo. “Il problema non è solo chi consuma di più, ma chi tutela di meno. E noi non abbiamo strumenti per la tutela del suolo: da anni giacciono in Parlamento proposte di legge; le regioni legiferano a singhiozzo e spesso male; i comuni continuano a fare piani urbanistici pieni zeppi di futura urbanizzazione” sostiene Pileri, e continua “in Italia siamo pieni di appartamenti non utilizzati e pronti da abitare (l’Agenzia delle entrate ne stima oltre 2 milioni), oltre a moltissimi da recuperare assieme a una enorme superficie di aree dismesse. Tutto il futuro della nostra edilizia potrebbe tranquillamente rigenerarsi accettando la sfida di recuperare ciò che esiste già”. Non c’è bisogno, quindi, di ulteriore cementificazione e urbanizzazione, ma quello che è più necessario sembra essere un impegno a fermare il consumo del suolo e a concentrarsi sul suo recupero.

Quello che ci dà la misura della fragilità del nostro pianeta è il fatto che solo il 3-4% della superficie terrestre è coltivabile in modo efficiente. Questa risorsa è distribuita in modo disomogeneo e oggi è minacciata dai cambiamenti climatici. “Tutto questo è aggravato dal nostro stile di vitaenergivoro basato su una dieta alimentare eccessivamente calorica e proteica che richiede tanto suolo per far mangiare poche persone” prosegue Paolo Pileri, “senza contare che continuiamo a spalmare asfalto sui terreni agricoli”.

“Le istituzioni hanno la responsabilità di intervenire sulla dissipazione dei suoli e di aumentare la consapevolezza del valore di questo bene comune, mentre i cittadini dovrebbero pretendere che la tutela del suolo sia tra le priorità dell’agenda politica e dovrebbero iniziare a documentare, usando gli smartphone, tutti i patrimoni pubblici e privati vuoti abbandonati o dismessi che potrebbero essere recuperati” suggerisce Paolo Pileri, che conclude: “Dobbiamo lavorare tutti per incrementare la conoscenza, solo così aumentiamo la consapevolezza che costruisce la coscienza. E questo possiamo farlo proprio a partire dalla scuola”.

Questi secoli di Olimpiadi

Iniziati quasi 3000 anni fa, i Giochi olimpici sono, ancora oggi, la manifestazione sportiva più importante e prestigiosa. Si fanno risalire al 776 a.C. e la loro funzione era sia sportiva sia religiosa. Ogni quattro anni a Olimpia, in onore di Zeus, si fermavano le guerre per disputare diversi tipi di pratiche sportive, come le corse podistiche, le corse con i cavalli e il pugilato.

Non erano ammesse le donne, che dal VI secolo a.C. organizzano ad Argo i giochi dedicati a Era, gli stranieri, le persone disonorate e gli schiavi. Le 292 edizioni dell’antichità ricordano molti celebri vincitori, che non curandosi dei record con la loro vittoria portavano onore alla propria città, emulavano le gesta di Eracle o Achille e certe volte approfittavano della popolarità per inaugurare la carriera politica.

È forse il più celebre atleta delle Olimpiadi antiche il lottatore Milone di Crotone, vissuto nel VI secolo a.C. e vincitore in sei diverse Olimpiadi. Intorno alle sue gesta si racconta che, durante una lezione di Pitagora, Milone sostituì con il suo corpo una colonna di un edificio, che rischiava di crollare, dando a Pitagora e ai suoi allievi il tempo di fuggire dal palazzo.

I Giochi olimpici antichi continuano anche per tutta l’epoca romana fino al 393 d.C, anno in cui l’imperatore romano Teodosio I, vieta i Giochi perché considerati spettacoli pagani.

Clicca sulla foto in basso per vedere la timeline in cui si ripercorrono le tappe più importanti delle Olimpiadi moderne, iniziate 120 anni fa, il 6 aprile 1896.

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World Water Day – 2016

Come tutti gli anni, oggi si celebra la giornata mondiale dell’acqua e quest’anno l’obiettivo della campagna ruota intorno al rapporto acqua e lavoro, elementi fondamentali per trasformare la vita delle persone. L’acqua è essenziale per la sopravvivenza, e la possibilità di avere accesso a un lavoro dignitoso può facilitare importanti progressi sociali ed economici.

“Il mio lavoro comincia quando immergo il pennello nel bicchiere pieno d’acqua. L’acqua è fondamentale nella mia pittura: determina la fluidità del dipinto, ne cambia l’intensità, la consistenza e spesso anche il messaggio. Colori brillanti o lucidi, annacquati o pesanti, intensi, densi e con la minima quantità di acqua: ognuna di queste caratteristiche è capace di evocare un sentimento diverso…” così racconta Catherine Fenton, una delle voci della campagna “Better water, better jobs”, lanciata quest’anno dall’UN-Water, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di tutte le questioni relative all’acqua e alla gestione dei servizi igienico-sanitari, e coordinata dall’organizzazione internazionale del lavoro (ILO).

Oggi, in tutto il mondo, la metà dei lavoratori, cioè circa 1,5 miliardi, è impiegato in settori che hanno a che fare con l’acqua e molte di queste persone non sono né riconosciute né protette dai diritti fondamentali dei lavoratori. Per esempio, in alcune parti del mondo sono i bambini a dover procurare le scorte di acqua per la famiglia. Questo è lavoro, ma non è né pagato né riconosciuto. Se l’accesso all’acqua fosse garantito, questi bambini potrebbero frequentare la scuola.

Suzanne Chidiebe, un’altra voce della sezione Water is work, racconta che: “Prima che arrivasse la nuova pompa per l’acqua, dovevamo camminare ogni giorno per circa 3 chilometri per andare a prendere l’acqua. I bambini dovevano alzarsi veramente presto al mattino e spesso arrivavano tardi a scuola perché la strada era lunga. Adesso sono puntuali a scuola e credo che i loro insegnanti siano contenti”.

Corsa al Polo, l’ultima esplorazione terrestre

«Domani partiremo per il punto esatto del polo, a 5,5 miglia nautiche da qui. Adesso abbiamo cibo per noi uomini per 18 giorni, 10 giorni per i cani. Credo che arriveremo senza problemi al nostro deposito agli 88° 25’, e da lì al deposito sul Ghiacciaio del Diavolo. È davvero interessante vedere il sole che si muove in cielo per così dire alla stessa altezza giorno e notte. Credo che siamo i primi uomini a vedere questo spettacolo singolare»

Così l’esploratore norvegese Roald Engelbregt Gravning Amundsenscriveva sul suo diario di viaggio alla vigilia dell’arrivo nel punto più a sud del mondo, quella “enorme distesa piatta, dove non si vede una sola irregolarità”, per usare ancora le sue parole appuntate nel diario.

È il 14 dicembre del 1911 e, dopo circa un anno e mezzo dalla partenza, Amundsen vince la corsa al Polo, disputata con il suo grande rivale, il britannico Robert Falcon Scott. Con un vantaggio di 35 giorni sull’esploratore inglese, Amundsen taglia l’ultimo traguardo delle esplorazioni terrestri. È però solo il 7 marzo che Amundsen riesce ad annunciare al mondo la sua grande impresa. Oggi, il luogo raggiunto da Amundsen e Scott, ancora remoto e poco accessibile, ospita una base permanente americana per la ricerca scientifica, che in loro onore è chiamata Amundsen-Scott South Pole Station.

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123 anni di motore diesel

Fa parte della rosa dei personaggi che hanno fatto la storia dell’automobile, cioè dell’Automotive Hall of Fame, per aver sfidato la macchina a vapore. L’ingegnere tedesco Rudolf Diesel, sin dai tempi della scuola, si immagina un futuro industriale trainato da macchine diverse da quelle a vapore. Il basso rendimento energetico dell’invenzione di Watt spinge l’ingegnere tedesco a cercare la soluzione in una macchina termica con motore a combustione interna.

L’ambizione di Diesel è grande, ma il signor Heinrich von Buz, direttore generale dell’allora Maschinenfabrik di Augsburg, non dubita delle potenzialità di una nuova tecnologia e mette a disposizione laboratori e capitale per realizzare il progetto di Diesel.

Sfruttando il principio per cui l’aria compressa si riscalda, Diesel pensa di iniettare del combustibile liquido nell’aria riscaldata dalla compressione, in modo da sfruttare l’aumento della temperatura e della pressione per innescare una combustione. In sostanza, Diesel progetta un motore a combustione interna, alimentato negli anni successivi a gasolio, che sfrutta la compressione dell’aria per ottenere l’accensione.

Tra i vari combustibili possibili, Diesel elimina la benzina perché troppo volatile e sceglie dei combustibili che inneschino più facilmente la combustione nel suo motore, come i distillati più pesanti del petrolio, gli oli vegetali e la polvere di carbone. Ed è proprio quest’ultimo a essere usato come primo combustibile. Il motore viene brevettato nel 1893, ma fino al 1897 non viene costruito nessun esemplare che soddisfi il progetto dell’ingegnere tedesco.

Rudolf Diesel passa il resto della vita a mettere a punto il suo motore e a trovare sempre nuove soluzioni per aumentarne le performance e l’efficienza.